Editoriali - 28 aprile 2019, 22:39

La rinascita di Torino e dell'Italia è possibile se la FIAT sarà guidata da industriali veri e italiani sostenuti dallo Stato. Di Giuseppe Chiaradia*

La FIAT è stata costruita dai lavoratori italiani con ingegno e fatica e italiana deve rimanere

La rinascita di Torino e dell'Italia è possibile se la FIAT sarà guidata da industriali veri e italiani sostenuti dallo Stato. Di Giuseppe Chiaradia*

Nel 1989 la FIAT si era assisa per il quinto anno consecutivo sul trono di maggior costruttore europeo, primato che si era conteso con fortune alterne per tutti gli anni 80 con la germanica Wolkswagen. Nella classifica  mondiale la FIAT era in quegli anni il quinto costruttore mondiale. Il merito di quel trionfo appartiene tutto ed esclusivamente ai lavoratori, tecnici e dirigenti piemontesi ed emigranti italiani da tutte le regioni, condotti da uno straordinario manager: Vittorio Ghidella. Quell’anno fu lo zenit del successo a cui sarebbe seguito l’inevitabile declino, perché la decisione fatale di cacciare Ghidella sul finire dell’anno precedente fu un gesto di auto lesionismo, che avrebbe portato la FIAT sulla china di una lenta ed inarrestabile deriva. Se  Vittorio Ghidella fosse  rimasto là dove doveva stare, forse la storia da raccontare sarebbe stata un’altra. Anzi, sicuramente.
Dell’antica gloria rimane ben poco. Secondo i dati di Focus2Move sui top 50 brands venduti nel mondo per numero di auto e riferiti all’anno 2018, mentre Volkswagen, l’antico competitor, è al 2° posto, con uno share del 7,4%, la FIAT è al 18° posto, con un misero 1,6%, superata persino dalla Jeep, al 16° posto.
Vendite di auto per brand anno 2018:


Volkswagen      6.908.369    auto vendute      7,4 % share    2°  posto
Jeep                 1.580.132     auto vendute      1,7% share   16° posto
FIAT                 1.481.677   auto vendute       1,6% share    18°  posto

FCA è americana

La salvezza di FCA si chiama Marchionne a cui va anche il merito di aver valorizzato Mike Manley l’artefice del successo Jeep e RAM, senza il quale FCA sarebbe affondata; ma queste appartengono al ramo americano di FCA ed il 75% dei ricavi arrivano da oltre Atlantico. I prodotti dei marchi tradizionali italiani vivacchiano ma non hanno sfondato.
Sulla base di questo stato delle cose è inevitabile che i vertici di FCA prendano in considerazione la cessione del ramo europeo di FCA a qualche altro big player. In questi mesi si rincorrono voci e smentite di fusioni e cessioni del marchio FIAT ora con PSA, ora con Hyundai.
Ma la FIAT era ed è un’industria strategica per la nazione italiana, che ha fatto la storia del boom economico del dopoguerra e ci permette di essere ancora considerati una potenza industriale. Dopo la sciagurata scomparsa di grandi gruppi come Montedison, Ansaldo, Franco Tosi e l’altrettanta sciagurata cessione del controllo di gruppi come Pirelli, Italcementi, Telecom e tanti altri ancora allo straniero, se anche quel che rimane della FIAT italiana dovesse passare in mano allo straniero, costui agirebbe secondo i suoi legittimi interessi del profitto, che quasi mai coincidono con gli interessi degli italiani.

Le fabbriche di FIAT, Alfa e Lancia ad industriali veri ed italiani con l’aiuto di Stato

Per tornare grandi è necessario che la FIAT sia guidata da industriali veri e non da gente che fa affari per far profitto. Industriali che governano le fabbriche con competenza e passione e che abbiano a cuore le sorti della nazione e dei lavoratori. Costoro devono essere sostenuti finanziariamente dallo stato perché l’industria automobilistica richiede enormi risorse finanziarie in ricerca, progettazione di nuovi modelli ed investimenti, e queste risorse devono essere, almeno in parte, fornite dallo stato. Le capacità tecniche ed imprenditoriali ci sono, lo dimostrano 2000 anni di storia e se mancano i soldi, quelli è lo stato che li deve mettere. E darli alle persone giuste, non ai faccendieri. E se la UE dice che non sono possibili gli aiuti di stato, noi rispondiamo: e chi se ne frega, gli italiani vengono prima di tutto e di tutti.

La decisione fatale: cacciare Vittorio Ghidella

L’inizio del declino della Fiat ha una data precisa: 28 Novembre 1988, giorno in cui vennero ufficializzate le dimissioni dell’Ingegner Vittorio Ghidella da amministratore della Fiat Auto Al suo posto subentrò un uomo di finanza ed assiduo frequentatore delle stanze della politica, Cesare Romiti, allora sessantenne. Emblematico fu il commiato di Ghidella: “non ci si improvvisa ingegnere dell’auto a 60 anni”.

Non ci si improvvisa ingegnere dell’auto a 60 anni

Questa frase vale più di mille trattati di economia: le moderne industrie strategiche devono essere guidate operativamente da dirigenti competenti ed  appassionati come Vittorio, che hanno vissuto la loro giovinezza professionale da protagonisti nell’officina, a fianco degli operai. Difatti il nuovo chairman di FCA, Mike Manley, così come quello di Volkswagen, Herbert Diess, sono entrambi ingegneri meccanici, i quali hanno passato tutta la loro carriera, nel mondo dell’auto scalando gradualmente, per meriti acquisiti in campo, i vertici della loro società.
Non è importante che l’imprenditore sappia come girano le cose. Il ruolo dell’imprenditore è quello di mettere le persone giuste nei posti giusti in modo che sappiano giustamente consigliarlo. E Romiti era la persona sbagliata nel posto sbagliato.

Il signorotto di un marchesato piemontese di montagna

Gianni Agnelli, dovendo scegliere fra l’uomo di finanza e l’uomo d’industria scelse l’uomo di finanza. Quella scelta fu fatale non solo per la FIAT, ma anche per Torino e per l’Italia. “Quello che è male per Torino è male per l’Italia”, fu lo stesso Agnelli a dirlo, profeticamente, in un’intervista.
Bisogna dire che ad un uomo raffinato e cosmopolita come lui, che finiva spesso sulle prime pagine dei giornali del mondo, è inevitabile che il business lo appassionasse più delle catene di montaggio o delle forniture di camion. Così ha scritto sull’ Avvocato Riccardo Ruggeri (il creatore del colosso macchine movimento terra New Holland), nella sua autobiografia: “Era il ruolo di Presidente di un’azienda industriale, per lo più metalmeccanica che non gli era congeniale; e per ragioni di cortesia, fingeva un generico interesse a quello che i suoi manager gli dicevano, annuendo pensoso”. Il disinteresse verso la banalità della quotidianità umana e la provinciale ricerca di mondanità davano l’impressione a Ruggeri “che nel profondo fosse rimasto un signorotto di un marchesato piemontese di montagna”.
(Riccardo Ruggeri: Fiat, una storia d’amore finita, Grantorino libri)

L’errore fatale: usare gli utili dell’industria come bancomat per fare finanza

Al di là dei motivi pretestuali che portarono alle dimissioni di Ghidella, all’origine vi era la diversa visione sul futuro della Fiat dei due manager. La visione di Romiti era quella di diversificare in altri settori, soprattutto in campo finanziario, le attività del gruppo, mentre quella di Ghidella era di concentrare tutte le energie nel settore auto ed il progetto dell’acquisizione della Ford, fortemente caldeggiato da Ghidella, ne è un esempio.  Il giornale Lettera 43 riporta una dichiarazione dell’allora segretario generale della CISL Pierre Carniti: «In realtà dietro c'era un contrasto significativo. Gli azionisti Fiat da tempo avevano deciso che l'auto era un prodotto maturo, su cui non bisognava più investire».

Ghidella e l’ autocentrismo. La diversificazione e il profumo d’affari

Ghidella era nato a Vercelli nel 1931, si laureò al Politecnico di Torino, e divenne capo del settore auto della FIAT nel 1979. Riorganizzò la gestione degli stabilimenti e fece entrare in produzione i modelli che avrebbero portato la FIAT prima in Europa: Uno, Chroma, Tipo, Alfa 164, Autobianchi Y10, Lancia Delta e Thema.
Incredibilmente, malgrado gli innegabili successi fu cacciato con l’accusa di “autocentrismo”: l’auto tirava benissimo, macinava utili, ed il signorotto cosa fa? Licenzia Ghidella perché è di ostacolo alla “diversificazione” che piaceva tanto ai cortigiani della Torino bene, senz’arte né parte, che gli ronzavano intorno, e che in quella “diversificazione” sentivano profumo d’affari.
Dopo la sua cacciata la strada per infilarsi negli affari coi soldi incassati grazie all’ingegno ed al sudore dei lavoratori era spianata: finanza e costruzioni in primis. Quella strada portò alla mortificazione degli stabilimenti torinesi e le vicende giudiziarie degli anni successivi scoperchiarono la natura puramente affaristica di quelle operazioni.

L’interesse nazionale prima del profitto

La vicenda della FIAT è emblematica: se la grande industria continua ad essere trattata secondo le logiche del profitto fine a sé stesso, che non tiene conto degli interessi nazionali, chi ci perde è l’Italia, qualunque sia lo scenario futuro. Una cosa è la libera iniziativa dei cittadini, che hanno tutto il loro diritto ad esercitare il loro spirito imprenditoriale, un’altra cosa sono le grandi industrie strategiche, al alto contenuto tecnologico, che sono un patrimonio per ogni nazione. E questo patrimonio non può essere venduto e comprato come se fosse una merce qualunque o una gelateria, perché è stato costruito nel corso di decenni da generazioni di operai e tecnici con la loro fatica e la loro intelligenza.

*Giuseppe Chiaradia, ingegnere chimico

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