Da anni, tutta la politica nostrana proclama che si deve ridurre il cuneo fiscale. Poi però ha sempre rimandato la riduzione. La ragione. Questo meccanismo porta bei soldoni ― come diremo dopo ― alle sempre fameliche casse dello Stato. Ridurre il cuneo fiscale vuol dire rinunciare a comode entrate di bilancio. Le versano, obbligatoriamente, i Pantaloni. Cioè, lavoratori e imprese. E anche queste entrate servono per mantenere i privilegi della casta: auto blu, pettinatrici e parrucchieri che non costano, bar gratuiti o quasi, viaggi a spese dei contribuenti, ecc. ecc. Nessuno che proponga una riduzione di questi costi e di tanti altri sprechi per compensare le minori entrate che deriverebbero dal taglio del cuneo fiscale.
Ciò premesso, di taglio del cuneo fiscale si torna a parlare in questi giorni. Il Governo Draghi lo sta valutando tra gli interventi previsti nel cosiddetto “decreto luglio”. Si pensa a una riduzione del cuneo di 4 punti a partire da settembre. Vedremo dopo l’incidenza che il taglio potrà avere. Il taglio dovrebbe aiutare i lavoratori che guadagnano meno di 35 mila euro l’anno ― che quindi avrebbero più soldi in busta paga ― e le imprese. Lavoratori e imprese sono in difficoltà a causa della pesante situazione economica generata dal mischiarsi di più fattori negativi: pandemia, inflazione, guerra, aumento dei costi di gas, benzina, e altre materie prime e, non ultima, la siccità. Dunque, parlare un po’ di cuneo fiscale può essere utile.
In generale, il cuneo fiscale è un valore che indica il peso delle imposte sul lavoro. Nel lavoro dipendente, determina la differenza tra retribuzione lorda spettante al lavoratore e retribuzione netta percepita in busta paga. Si parte da una retribuzione lorda. Su essa, il datore di lavoro paga contributi previdenziali e assistenziali e trattiene tasse e contributi a carico del lavoratore. Contributi e trattenute vengono versate allo Stato e agli enti previdenziali. Tutti questi importi ― che rappresentano il cuneo fiscale ― vengono portati in diminuzione alla retribuzione lorda. La somma che resta è la retribuzione netta. Per i lavoratori autonomi o liberi professionisti, il cuneo fiscale è costituito dalle tasse ― nazionali, comunali e regionali ―, contributi previdenziali e IVA. Questi oneri sono divisi tra il lavoratore autonomo e il cliente.
Ridurre il cuneo fiscale è un intervento della massima importanza ― e oggi urgenza a causa della crisi ― sia per i lavoratori, sia per le imprese. I lavoratori, pagando meno tasse e contributi, ottengono un reddito netto più alto che consente loro intanto di vivere con più tranquillità. Se poi avanza qualcosa, possono pensare a maggiori consumi. L’aumento dei consumi stimola le imprese a una maggiore produzione di beni. Se le imprese hanno costi minori per il lavoro, dispongono di risorse da destinare a investimenti e assunzioni. Inoltre, riducendo il costo dei prodotti, diventano anche più competitive sui mercati nazionali e internazionali. La combinazione virtuosa dei due effetti positivi derivanti dal taglio del cuneo fiscale stimola la crescita economica, con ricadute sull’aumento del Prodotto Interno Lordo (PIL). E l’aumento del PIL riduce la necessità dello Stato di fare debiti per aiutare lavoratori e imprese.
Vediamo allora qual è la situazione italiana in merito al cuneo fiscale. L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo (OCSE) pubblica, annualmente, un rapporto sulla tassazione dei salari nel mondo. Dal rapporto 2022 (Taxing Wages 2022, pubblicato il 24.05.2022) risulta che l’Italia ha il 5° cuneo fiscale più alto tra i Paesi del mondo industrializzato, oltre 10 punti in più della media dei Paesi.
L’OCSE fissa il cuneo fiscale medio di una persona sola in Italia al 46,5%. L’Italia è preceduta da: Belgio (52,6%), Germania (48,1%), Austria (47,8%), Francia (47%). Poi si scende con percentuali sempre minori trovando, ad esempio, Stati Uniti con il 28,4%, Australia con il 27,1%, Messico con il 19,6%, Cile con il 7%. Infine la Colombia che non ha cuneo fiscale. Ovviamente, ogni Paese avrà regole diverse in materia di lavoro, retribuzioni lorde ― che potrebbero anche essere superiori a quelle italiane ― e di tutela dei lavoratori. Certo è che una minore incidenza del cuneo fiscale sul lavoro o, addirittura, l’inesistenza di esso danno una competitività maggiore ai prodotti. I beni costano meno e, quindi, possono essere offerti sui mercati a prezzi inferiori.
Resta ora da tradurre questa situazione in soldoni. Sulla base del carico fiscale in Italia del 46,5%, è evidente che quasi la metà dello stipendio lordo di un lavoratore va in tasse e contributi. Tagliare questa percentuale di 4 punti ― come intenderebbe fare il Governo Draghi ― significa ridurre la percentuale al 42,5%, percentuale comunque ancora elevata. Al momento attuale, non si sa quale sarà la ripartizione del taglio tra lavoratori e imprese.
Utilizzando le percentuali fornite dall’OCSE, l’Associazione Artigiani e Piccole imprese Mestre C.G.I. A. ― ente che elabora studi in materia di lavoro ― ha stimato che il cuneo fiscale in Italia ammonti, annualmente, a circa 296 miliardi di euro, di cui: circa 161 pagati dai datori di lavoro e circa 135 pagati dai lavoratori dipendenti.
In una nota del 7 giugno su questo tema, il Sole 24Ore stima che il cuneo fiscale effettivo in Italia sia addirittura del 60%. Valutando quindi in 300 miliardi di euro l’ammontare medio annuale dei salari lordi pagati nel settore privato, indica il carico fiscale in 180 miliardi, 100 miliardi di contributi previdenziali e 80 miliardi di tasse sul reddito delle persone fisiche (IRPEF).
Com’è dato di vedere, si tratta di cifre imponenti. Tagliare il cuneo fiscale significa ridurre le entrate dello Stato, riduzione che lo Stato dovrà compensare in qualche maniera. O riduce i propri costi, come detto prima o, con le casse perennemente vuote, aumenta il debito pubblico. Anche il Governo Draghi, proponendosi di tagliare un po’ il cuneo fiscale, salvo alcuni aggiustamenti non esclude la seconda strada. E poi non meravigliamoci se, appena tira un filo di vento cattivo nell’economia, vola lo spread e i nostri titoli di Stato perdono valore e devono pagare interessi più alti per essere acquistati dagli investitori.