Messaggi in bottiglia | 30 gennaio 2022, 14:59

Microimprese: sono davvero il problema della nostra economia? Di Marco Corrini*

Draghi guida un Paese in cui il 95% delle imprese ha meno di 15 dipendenti, un mondo dal quale è estremamente distante che tuttavia lo acclama come salvatore. La filosofia del presidente si direbbe essere quella espressa più volte dall'economista Michele Boldrin: "La micro e piccola impresa italiana va decimata". Una posizione che potrebbe avere una logica ma rischiosa: distruggere la microimpresa significherebbe cancellare un patrimonio non solo economico, ma anche culturale, immenso e probabilmente snaturerebbe il nostro Paese portandolo a confrontarsi con realtà puramente produttive con le quali non potrà mai competere per le proprie carenze strutturali, istituzionali, e fiscali. Una strada che va interrotta immediatamente

Microimprese: sono davvero il problema della nostra economia? Di Marco Corrini*

Michele Boldrin, lo dice da anni: "La micro e piccola impresa italiana va decimata".

Questa é anche, da sempre, la filosofia di Mario Draghi, che proprio per questo non dovrebbe essere il Presidente del Consiglio di un Paese in cui il 95% delle imprese sono inferiori ai 15 dipendenti, e la maggioranza di esse sono famigliari.

Draghi invece premier lo é, e la cosa davvero bizzarra é che quella stessa maggioranza di microimprese che, al pari di Boldrin, si é sempre proposto di distruggere, lo acclama come salvatore della Patria.

Tuttavia, la posizione di Boldrin (e di quasi tutti gli economisti), sul piano squisitamente tecnico ha una sua logica.

L'Italia, tra le grandi economie, é l'unica polarizzata alla microimpresa, e questo sul piano della produttività (e quindi della competitività che ad essa é indissolubilmente legata), è un handicap non da poco.

Per capirlo meglio è sufficiente confrontare gli indici di produttività negli ultimi 25 anni.

In Italia, nel periodo 1995-2019 l'indice generale di produttività è stato dello 0,7%, assai inferiore a quello medio della Ue28 (1,9%).

In particolare la produttività del lavoro é salita solo dello 0,3%, ma a fronte di una produttività del fattore capitale, addirittura in contrazione (-0,7%).

In buona sostanza, sul fronte del lavoro, questo significa che produrre un bullone oggi in Italia, richiede più o meno lo stesso sforzo rispetto a 25 anni fa.

Ancora più importante é la produttività del capitale, perché è un indice che spiega quanto il capitale venga utilizzato in modo efficiente per generare l’output.

In pratica, se cambiare degli utensili con altri dello stesso tipo può aiutare un’industria a non perdere colpi, acquistare una macchina automatica dovrebbe invece aumentare l’output in maniera più che proporzionale rispetto all’investimento effettuato. 

Proprio questa maggiore capacità di investimento agevola le medie e grandi imprese, penalizzando i sistemi a microimprenditoria diffusa come il nostro.

Boldrin (e Draghi) quindi, sembrerebbe aver ragione, ma c'é più di un problema.

L'affermazione: "decimare la microimprenditoria per contrastare il deficit di produttività e competitività delle nostre imprese" non é affatto scontata, perché parte dal presupposto, tutto da verificare, che avvenga una convergenza imprenditoriale che formi nuove realtà di dimensioni più competitive.

Assai più probabile, invece, che il mercato finirebbe per rafforzare le major esistenti, la quali però, sono in stragrande maggioranza di proprietà estera.

Decimare la microimpresa quindi, avrebbe l'effetto immediato di un terremoto nell'economia produttiva del Paese, che va ricordato, pur con tutte le sue debolezze, é la seconda potenza manifatturiera della UE.

Cionondimeno, una spinta all'aggregazione imprenditoriale non potrebbe fare che bene, ma anche su questo piano c'é un grosso problema.

La grande impresa può ottimizzare i cicli produttivi e le risorse finanziarie, ma per raggiungere la piena competitività necessita di know-how, e di uno Stato efficiente con un sistema fiscale competitivo.

E qui casca l'asino, perché lo Stato italiano rappresenta per l'impresa nazionale, un gap di competitività perfino superiore a quello datole dalle sue ridotte dimensioni.

Il paradosso é che le deficienze strutturali e fiscali dello Stato italiano vengono tollerate ed ammortizzate proprio grazie alla struttura di microimprenditoria della sua economia, quella struttura che si vuole distruggere.

L'impresa famigliare infatti é assai meno sensibile alle turbolenze macroeconomiche rispetto ad una grande multinazionale che, in caso di difficoltà, non si fa alcuno scrupolo a chiudere tutto, o a socializzare le perdite.

A parte l'aspetto puramente tecnico, va poi considerato che la nostra esagerata diversificazione imprenditoriale, racchiude un patrimonio di know-how, manualità, e genialità, che non trova eguali in nessuna altra parte del mondo: è una caratteristica, che unita alla versatilità tipica della microimpresa italiana, non potrebbe, in nessun modo, essere mantenuta in un contesto più grande, e andrebbe inevitabilmente perduta con una svolta aggregativa.

Insomma, quando si parla di decimare le microimprese si dovrebbero quanto meno fare dei distinguo, perché ci sono tantissime microimprese che si sono ritagliate un ruolo importante, se non addirittura determinante, perfino nell'attuale economia 4.0, e che rappresentano un tassello irrinunciabile per la crescita e lo sviluppo del Paese.

Distruggerle significherebbe cancellare un patrimonio non solo economico, ma anche culturale, immenso e probabilmente snaturerebbe il nostro Paese portandolo a confrontarsi con realtà puramente produttive con le quali non potrà mai competere per le proprie carenze strutturali, istituzionali, e fiscali.

Certo peró dobbiamo ragionare su una nuova posizione di equilibrio del "Sistema Paese", perché continuando cosí l'Italia é destinata a fallire.

Il primo passo però, sarebbe una seria riforma dello Stato, partendo proprio dalle Istituzioni e dalla Magistratura. Senza questa riforma "decimare le microimprese", operazione peraltro scelleratamente in atto, é solo il primo passo verso il baratro, un passo dal quale si dovrebbe, recedere immediatamente, avviando un confronto aperto tra tutte le componenti politiche ed economiche scienzienti, posto che ve ne siano.

Questa ahimé, ad oggi, resta una vera utopia.

*Marco Corrini, scrittore ed esperto di marketing