Editoriali | 21 agosto 2020, 23:56

Romiti, l’uomo che portò la Fiat dal primato europeo all’orlo del fallimento. Di Giuseppe Chiaradia*

Nel 1988 Vittorio Ghidella rassegnò le dimissioni da amministratore delegato di Fiat Auto. Cesare Romiti, l’uomo della finanza, aveva prevalso sull’uomo dell’industria, che in quell’anno aveva portato la Fiat ad essere per il quarto anno consecutivo il maggior costruttore europeo di auto. Romiti fu l’esecutore di una trasformazione della “mission” della più importante industria italiana che avevano voluto gli azionisti, ad esclusione, forse, di Umberto Agnelli. La scomparsa di Cesare Romiti ci dà l'occasione di ricordare l’inizio di un percorso di declino e decadenza della Fiat e di tutta l’Italia che si sarebbe potuto evitare se gli eredi delle famiglie imprenditoriali italiane avessero avuto una visione industriale e non affaristica collocando alla direzione delle industrie ereditate manager intelligenti e preparati ed esperti come Vittorio Ghidella, che allora abbondavano, e non personaggi avulsi dalla realtà in cui operavano, per i quali l’industria era un business come altri e come tale doveva essere valutato e gestito. Questa erronea visione si rivelò fatale per le industrie delle famiglie imprenditoriali che avevano guidato gli anni d’oro del boom economico.

Romiti, l’uomo che portò la Fiat dal primato europeo all’orlo del fallimento. Di Giuseppe Chiaradia*

Nel 1980 Enrico Cuccia, presidente di Mediobanca, suggerì ai fratelli Giovanni e Umberto Agnelli di uscire dal Consiglio di Amministrazione della holding Fiat e di lasciare come Amministratore Unico Cesare Romiti, uomo di fiducia del banchiere che sorreggeva, in virtù del sostegno finanziario di Mediobanca e indirettamente delle tre banche di interesse nazionale, i grandi gruppi industriali italiani, quasi tutti fortemente indebitati col sistema bancario controllato dallo stato.

La strategia della diversificazione 

Romiti, laureato in scienze economiche, era inevitabilmente portato ad avere una visione più strettamente finanziaria dell’azienda, secondo la quale l’obiettivo prioritario di un manager è massimizzare gli utili, e, in questa logica, gli utili possono essere realizzati anche in settori differenti da quello dell’industria automobilistica, la fonte della ricchezza della famiglia Agnelli.

E’ comunque anche vero che gli azionisti si erano adeguati allo spirito dei tempi. Difatti sul finire degli anni 80, in Italia, così come avvenuto negli USA già a partire dagli anni 70, gli investitori cominciavano ad indirizzare il loro interesse verso quello che la stampa mainstream chiamava “terziario avanzato”, cioè servizi finanziari, immobiliare, informatica, grande distribuzione, in contrapposizione alle industrie manifatturiere e chimiche, viste come attività ormai “mature”, appartenenti ad un passato fatto di ciminiere, sudore, sfruttamento, inquinamento e conflitti sociali.

La verità era più prosaica: l’ industria automobilistica comportava l’impiego di ingenti risorse in investimenti e ricerca, capacità organizzative di prim’ordine, ed un assottigliamento dei profitti per sostenere la feroce competizione con gli altri costruttori; il lancio di un modello sbagliato o le turbolenze del prezzo del petrolio potevano comportare perdite disastrose per l’azienda. Inoltre bisognava affrontare i duri conflitti sindacali e i crescenti ostacoli burocratici e ambientali. Il confronto con altri settori, come ad esempio l’immobiliare, dal punto dei vantaggi del business e del rischio di impresa non aveva paragoni.

A questa visione finanziaria che derivava dalla sua preparazione professionale, Romiti aggiungeva una sincera volontà di trasformare la Fiat in una grandiosa holding, cioè una conglomerata, le cui attività dovevano rivolgersi anche verso le telecomunicazioni, l’aerospazio, senza comunque trascurare la collaborazione con altri costruttori per accrescere l’influenza dell’azienda in Europa e nel mondo.

L’inevitabile declino

Dopo l’estromissione di Ghidella dalla Fiat, Romiti, che sino ad allora aveva avuto incarichi per lo più amministrativi e comunque non di direzione operativa, assunse per altri due anni la direzione della Fiat Auto, fino alla nomina di Paolo Cantarella.

Con Romiti sulla plancia di comando del gruppo Fiat, la strategia della diversificazione e dell’internazionalizzazione prese decisamente il sopravvento rispetto alla visione autocentrica di Ghidella e negli anni successivi Romiti si impegnò in frequenti e spesso inconcludenti trattative con altri partner per accordi industriali, come quella con la famiglia Wallemberg per il controllo della Saab o l’operazione Pegaso- Enasa ed a proseguire gli investimenti in settori estranei a quello dell’automobile.

I successori di Ghidella alla guida di Fiat Auto, obbedirono alle direttive gestionali imposte da Romiti, basate sulla riduzione dei costi mediante licenziamenti, riduzione degli investimenti e delle spese di ricerca. I risultati non si fecero attendere: i modelli che seguirono si chiamavano: Palio, Duna, Siena, Marea, Bravo e Brava, auto che, come osservò perfidamente qualcuno, comperavano per lo più idraulici, imbianchini e tassisti.

I numeri del declino valgono più di mille parole: nel 1989, all’apice del suo successo, la Fiat produceva 1.971.969 autovetture, principalmente concentrate negli stabilimenti torinesi, nel 2018 la produzione di autovetture FCA è stata di 671.000 unità, con un ulteriore calo del 25% nel 2019.

Dopo che Romiti, allora sessantenne, prese il suo posto, Ghidella commentò profeticamente che non ci si improvvisa ingegneri a 60 anni. Difatti Romiti e gli azionisti non avevano capito che la Fiat doveva essere necessariamente focalizzata sull’auto, perché l’industria automobilistica necessitava di risorse umane e finanziari enormi, che non potevano essere distratte in altre iniziative estranee o non sinergiche con gli interessi dell’auto targata Fiat

 

Vittorio Ghidella

Nel gennaio 1979 Vittorio Ghidella fu chiamato a dirigere la Fiat Auto con l’obiettivo di rilanciare il settore automobilistico della FIAT, allora in grave crisi. Ghidella si era laureato in ingegneria meccanica al Politecnico di Torino ed entrò in fabbrica come tecnico cronometrista, mansione che consisteva nell’analisi dei tempi e metodi dei lavoratori a cottimo. Lo stare a fianco degli operai gli permise di fare la fondamentale esperienza sul campo, che permette di avere una più approfondita percezione delle problematiche, e di acquisire quella mentalità fatta di solidarietà e comprensione che hanno tutti gli uomini che hanno vissuto assieme, indipendentemente dal grado o mansione, la trincea del lavoro nella fabbrica.

Quando assunse l’incarico Ghidella sapeva bene che uno dei problemi principali della Fiat Auto era l’inadeguatezza dei suoi dirigenti. Difatti durante le gestioni successive all’era di Vittorio Valletta le posizioni dirigenziali erano diventate un ufficio di collocamento dei numerosi eredi della famiglia e dei rampolli della buona borghesia torinese. Alla pletora di inutili raccomandati con incarichi di pura rappresentanza, si accompagnava una mentalità del big management estranea alle esigenze del settore auto. Si racconta di questa sua battuta: “ Se domani mattina le centinaia di dirigenti che ci sono qui s' impiccassero tutti nei bagni, non ce ne accorgeremmo per mesi”.

*Giuseppe Chiaradia, ingegnere chimico